Secondo trekking al Kongsfjorden
20 luglio: escursione sulla cima della Olssonfjellet
La mattina ci si prepara come al solito per la nostra escursione. Dobbiamo raggiungere la cima di una montagna, con un buon dislivello. La quota è di 900 metri.
Anche questa volta si cammina su terreni fatti di rocce frammentate e taglienti. Astri ci guida su un pendio a forte pendenza, tracciando coi suoi scarponi una sorta di sentiero. Mi guardo dietro, verso il fondovalle: per fortuna non soffro di vertigini…
Ad un tratto facciamo una deviazione verso destra, tagliando in orizzontale il pendio. Una roccia spunta dal terreno pietroso: è da scavalcare. Astri passa e resta lì ad aiutarci a passare, in caso di bisogno.
Le rocce frammentate rendono difficile camminare su quel terreno, ogni tanto qualcuna ruzzola giù, i piedi sembrano scivolare, le scarpe non riescono a fare attrito su quella roccia instabile.
Così mi ritrovo isolato dagli altri: non so perché, ma scavalcando la roccia mi ero portato in basso, anziché salire come hanno fatto gli altri. E così ho l’immagine di me coi piedi e le mani puntati in mezzo alle rocce, cercando di non scivolare giù nel burrone e allo stesso tempo non riuscendo a salire.
“Credo di non essere in una buona posizione…” dico in inglese alle guide. Cecilie mi indica dove passare e così, a forza di braccia, un po’ salendo e un po’ arretrando, raggiungo gli altri.
Continuiamo fino a incontrare una lunga distesa di neve. Il cielo si copre, il vento freddo soffia forte e intorno è tutto bianco: le montagne, il terreno, il mare che riflette il grigiore chiaro del cielo, le nuvole basse che avvolgono ogni cosa.
Siamo tutti imbacuccati tranne Stuart, l’inglese, che sembra esser fatto di roccia: ha solo il maglione addosso, senza sciarpa, senza guanti, senza berretto di lana… Se ne sta lì come se niente fosse, come se, anziché nell’artico, stesse facendo una passeggiata a Piccadilly Circus in una giornata di fine inverno.
La cima
E finalmente arriviamo in cima. Ricordo i burroni che inghiottivano la vista a destra e a sinistra del sottile sentiero che stavamo percorrendo. Preferivo non guardare giù, mentre procedevo per gli ultimi metri che mi separavano dalla cima innevata della montagna.
Il sentiero terminava in una sorta di piazzola, su cui ci fermammo. Da lì ricominciava la neve e la cima aguzza del monte, su cui si avventura Astri, seguita da Kent ed Eva. Li seguo per qualche metro. La cima è ormai raggiunta.
Sotto di noi il pendio innevato scende a forte pendenza fino a valle. Non mi sento stabile in quel punto, sia per il sentiero strettissimo che per il forte vento che sembra vincere senza difficoltà i miei 70 chili. Così faccio dietrofront e raggiungo la piazzola, mangiando qualche mandorla e bevendo un sano tè caldo.
Al ritorno ci aspetta una lunga distesa di neve tutta in discesa, così qualcuno ne approfitta per scivolare giù, sedendosi e lasciandosi andare. Dopo un po’ mi siedo anche io e scivolo giù: i pantaloni da neve reggono bene e non mi ritrovo col didietro bagnato.
Più a valle il tempo migliora e il sole e il cielo azzurro tornano visibili.
Al campo, a cena, ci aspetta un buon pasto caldo: riso condito con una salsa di funghi e renna. Ne prendo due porzioni.
La notte mi tocca il turno di guardia dalle 5 alle 7. Questa volta faccio il turno insieme a Marina. Non c’è bisogno di indossare le tute pesanti: il tempo è buono e il vento soffia forte solo per la prima mezz’ora.
Marina se ne sta sulle colline sopra al campo, io faccio avanti e indietro, in parte sulla spiaggia e in parte sulle colline. Due ore di bear watching passano presto. Alle 6,30, come l’altra volta, metto a bollire l’acqua per la colazione. Alle 7 sveglio Bjorn e Astri.
Finisce un altro giorno alle Svalbard e ne comincia uno nuovo contemporaneamente.
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